Il teatro degli incubi: da Genova a Genova, un anno e mezzo dopo Marassi ancora preda degli ultras.
The theatre of dreams. È così che, molti anni fa, Sir Bobby Charlton denominò l’Old Trafford, l’ormai leggendario stadio inglese, casa del Manchester United.

È forse lecito, oggi come oggi, utilizzare l’appellativo inverso per la sede delle partite casalinghe del Genoa e della Sampdoria, quel Luigi Ferraris in Marassi, che per la seconda volta in pochissimo tempo, si ritrova stritolato in una fredda morsa mediatica, dopo il triste spettacolo offerto da un gruppo di ultras, reo di aver prepotentemente interrotto la gara tra Genoa e Siena, non appena i toscani mettevano a segno la quarta rete dell’incontro. Una contestazione senza precedenti in Italia, un momento di sconforto calcistico senza pari. Uno dei livelli più bassi che il calcio italiano abbia conosciuto nel corso della sua storia. Tutto questo accade ad appena un anno e mezzo di distanza dalle vergognose scene di Italia - Serbia, una delle pagine più brutte vissute dalla Nazionale italiana, impossibilitata a disputare la regolare gara con la rappresentativa serba a causa della ripugnante performance esibita dai tifosi di questa, presenti quel giorno a Marassi, che impedirono il regolare svolgimento della gara, requisendo di fatto l’intero stadio e piegandolo al loro volere. Era il 12 ottobre del 2010. Ieri la situazione si è ripresentata in tutta la sua prepotenza. E il Ferraris torna ad essere il Teatro degli Incubi.
È la ripresa dell’incontro tra Genoa e Siena. Entrambe le squadre sono invischiate nella lotta per non retrocedere e nessuna delle due può sbagliare. I toscani non lo fanno di certo e sono infatti in vantaggio per tre reti a zero sui rossoblù, partiti quest’estate con grandi ambizioni e coinvolti in una stagione tanto disastrosa quanto inaspettata. La quarta rete, siglata da Luigi Giorgi è la genesi della follia. Un drappello di ultras genoani invade la tribuna centrale del Ferraris. In campo volano fumogeni, l’arbitro Tagliavento interrompe il gioco. Due capo-tifosi, a volto scoperto, si arrampicano oltre la recinzione della tribuna e si arroccano sul tetto del tunnel che porta agli spogliatoi. Poi l’assurda richiesta. I giocatori del Genoa devono togliersi le maglie, portarle sotto di loro e andarsene dal campo. L’atmosfera è ai limiti del reale. Constatata l’impossibilità di ripristinare l’ordine in tempi accettabili, l’arbitro e i giocatori del Siena guadagnano la via degli spogliatoi in attesa che la situazione torni nella normalità. Ma non è cosa facile. Di fatto ostaggi di un gruppo di facinorosi, i giocatori genoani, primo fra tutti il capitano Marco Rossi, tentano una improbabile trattativa con i due capi ultrà, ancora accovacciati sul tunnel d’ingresso agli spogliatoi, irremovibili sulla loro richiesta. Il tutto con le forze dell’ordine schierate appena sotto di loro (come accadde quel 12 ottobre del 2010), restie a intervenire forse per non creare ulteriori problemi con i normali tifosi ancora presenti in tribuna centrale.
E il tempo intanto scorre. Il capitano Rossi cerca di risolvere la situazione assecondando la folle pretesa, raccogliendo le maglie dei suoi compagni e portandole all’imbocco del tunnel. È a questo punto che prende in mano la trattativa l’attaccante Giuseppe Sculli che, rifiutandosi di consegnare la propria maglia, ingaggia un faccia a faccia con i due ultrà, inizialmente intrapreso su toni piuttosto turbolenti ma alla fine risolutore. Dopo un reciproco scambio di insulti e di minacce, un abbraccio risolve l’incredibile contesa. La partita può finalmente riprendere e l’arbitro torna in campo assieme ai giocatori del Siena, mentre in tribuna centrale, i facinorosi riprendono i loro posti non abbandonando, però, la loro contestazione, proseguita voltando le spalle al campo e inneggiando ancora contro la società. In un clima surreale riprende l’incontro. Sono passati quaranta minuti dalla sospensione. Un tempo calcistico. Il Genoa riesce a limitare il passivo con una rete ma l’esito finale non cambia. Si chiude così il sipario su uno spettacolo indecoroso che incrina irrimediabilmente, di nuovo, la credibilità dello stadio Marassi.
Sarà forse un caso, ma due eventi così tremendamente simili, in un lasso di tempo così breve, non possono trovare una giustificazione. Ancora una volta il campo genovese è stato preso in ostaggio dalla follia di un gruppo di persone che non trova di meglio che invadere un settore dello stadio e interrompere una manifestazione sportiva, offrendo un’immagine vergognosa del calcio italiano, limitato da un’incredibile superficialità di gestione e macchiato dalle solite situazione ai limiti del reale. A questo va aggiunta la rinnovata impotenza delle forze dell’ordine che, per la seconda volta, scelgono il non intervento.
E ora? Le conseguenze della brillante azione dimostrativa degli ultras saranno le ultime gare interne della stagione disputate a porte chiuse, in un momento critico per la squadra che si ritrova, suo malgrado, in una situazione imbarazzante, a livello d’immagine e di classifica.
Nel frattempo prosegue il lavoro della questura di Genova. Finora sono dieci le identificazioni. Uno di questi è Fabrizio Fileni, colui che dialogava con Giuseppe Sculli e che all’Ansa avrebbe dichiarato che la richiesta ai giocatori di togliersi la maglia non è stata un’imposizione o un ricatto ma una questione di dignità. Già, perché se da una parte è in ballo l’onore e l’amore per la propria maglia e i propri colori, dall’altra aleggiano i fantasmi di ciò che accadde la scorsa stagione agli eterni rivali della Sampdoria. Sarebbe questa la vera motivazione. L’incubo di finire come gli odiati concittadini blucerchiati, il massimo del disonore, l’apice di ogni delusione. L’indignazione, la delusione, la rabbia, tutto ciò può essere concesso, anzi è doveroso concederlo a chi, di tasca propria, paga per seguire la sua squadra del cuore e che ha il diritto di esprimere il proprio disappunto. Ma tutto deve conoscere un limite, soprattutto quando quel limite va ad urtare i confini della civiltà. Ciò che accadde un anno e mezzo fa e quello che si è verificato ieri, in quegli irreali quaranta minuti, non corrisponde all’immagine di una società civile. Ogni anno, vecchie questioni ritornano inesorabilmente a galla: sicurezza negli stadi, ruolo delle forze dell’ordine, limiti della praticabilità. Eppure non sembra di essere più vicini di un passo alla soluzione del problema. L’immagine dello stadio va sempre più sbiadendo, scolorita dal nefasto influsso esercitato da chi, una domenica di sport, la interpreta come una guerra, una battaglia da condurre e vincere. Il tifo e l’amore per i propri colori è un diritto, ma manifestarlo nei limiti della legalità è un dovere civile. In questo momento la faccia sportiva dell’Italia è macchiata da un’altra domenica di follia, ancora una volta a Genova, in quel Teatro dell’incubo in attesa della rinascita.
Pubblicato il 23 Aprile 2012 da Damiano Mattana
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